• Pagine: 128
  • Prezzo: € 14,00
  • ISBN: 9788883064241
  • Data Uscita: 21/05/2024

Mahmud Darwish
Anne Sexton
Tomasz Różycki
Alessandro Ceni
Giulia Martini

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Sommario

Giorgio Caproni familiare. Conversazione con Attilio Mauro Caproni, a cura di Daniele Piccini

Silvio Ramat 1900-1914. La giovinezza della poesia in Italia. Amalia Guglielminetti (1881 -1941)

Anne Sexton, Favole da incubo, a cura di Fabrizio Angeli e Rosaria Lo Russo

Weldon Kees, Il mestiere di sopravvivere, a cura di Graziano Krätli

Tomasz Różycki, La mano dell’apicoltore, a cura di Andrea Ceccherelli

John Gould Fletcher, Poesie, a cura di Gabriele Tinti

Opificio delle voci nuove. 2, Poesie di Silvia Atzori, Giulio Zambon e Fael Marescotti, a cura di Giulia Martini

Mahmud Darwish, Al mio paese, a cura di Monica Ruocco, Sana Darghmouni e Pina Piccolo

Alessandro Ceni, 7 poesie da Felo de se

Giulia Martini, Tresor

Estratto

Mahmud Darwish
Al mio paese

Dal recente volume di Mahmud Darwish, Non scusarti per quel che hai fatto, a cura di Sana Darghmouni e Pina Piccolo (Crocetti editore - IF Idee editoriali Feltrinelli 2024), pubblichiamo la Premessa firmata da Monica Ruocco e una scelta di poesie.

In tempi come quelli che stiamo vivendo, quando l’orrore irrompe nelle nostre vite in una maniera talmente evidente, violenta e straziante da offuscare ogni altra cosa e obbligarci a guardare e a sapere, la letteratura e, in particolare, la poesia rimane un prezioso e, forse, unico e necessario rifugio. Lo è senza dubbio questa raccolta i cui versi di Mahmud Darwish, resi con rara intensità da Sana Darghmouni e Pina Piccolo, si distinguono per una maturità e profondità eccezionali. In Non scusarti per quel che hai fatto, pubblicata nel 2004, appena quattro anni prima della morte del suo autore, Darwish affronta il tema dell’inesorabile declino dell’esistenza e del disfacimento del ricordo, che si fa sempre meno tangibile e sempre più immaginario.

Partendo da memorie personali, materia legata inevitabilmente al vissuto storico di quella regione in cui, come nei versi di Abū Tammām in esergo, “né dimore sono le dimore”, Darwish ricostruisce una propria poetica dei luoghi e dei sentimenti. Ricordi reali si sovrappongono a frammenti immaginari, l’esilio personale diventa parte di un’epica storica che parte da Troia e arriva all’Andalus e al contemporaneo, l’io individuale si confronta con figure di un passato lontanissimo che rimonta nel tempo fino a Gilgamesh.

Proprio a partire dall’io del poeta, frammenti di storia, di luoghi e di individui combattono il crepuscolo dell’oblio per farsi parola e raggiungere il lettore che ne diventa inconsapevole custode. Queste esperienze non possono non trovare la propria origine se non in quella terra di Palestina, in quella casa materna in cui l’immagine stessa del poeta si fa evanescente. “E tu, ospite mio, sei ancora me com’eravamo una volta?”, gli domanda la casa; e il poeta risponde: “Sono saltato giù da questo muro per vedere / ciò che ci è celato / e per misurare la profondità dell’abisso”. Il lettore condivide con il poeta la vertigine dell’abisso, dell’eternità e dell’ignoto del giorno del giudizio e, assieme a lui, si muove tra sogni, ombre, tombe e morte. Questa dimensione simbolica, metafisica, parte però da qualcosa di molto vivo e concreto, dalla dimensione geografica di quei luoghi che rievocano una vita, quella dello stesso Darwish, fatta di lotte, battaglie, passioni e che attraversa tutta la raccolta. “Che cosa resterà delle tue parole? / – Il necessario oblio della memoria del luogo!”, scrive Darwish, e questo oblio più che una resa all’implacabile scorrere del tempo somiglia a un prematuro, malinconico commiato.

Se si ripercorre la biografia di Darwish la prima cosa che appare evidente è lo spaesamento, nel senso geografico del termine, vissuto da questo grande poeta che, ancora oggi, è un imprescindibile punto di riferimento per la causa e la cultura palestinesi. Nato nel 1941 a al-Birwa, una cittadina distrutta nel 1947, Darwish vive ancora bambino l’esperienza dei campi profughi in Libano, per rientrare segretamente in Palestina con la famiglia dove diventa un “alieno” secondo le disposizioni dello stato di Israele per coloro ai quali erano stati confiscati beni e dimore. Da qui si trasferisce a Haifa dove viene arrestato più volte per attività ostili allo stato di Israele, poi a Mosca, al Cairo, di nuovo a Beirut e poi a Tunisi al seguito dell’olp, infine a Parigi, Amman e Ramallah. Ritrovare la propria casa originaria in Palestina e, quindi, per Darwish, chiudere un cerchio per ricongiungersi con il proprio io e con quella patria di cui la storia ha cancellato l’esistenza e che ancora oggi, mentre scriviamo, lotta costantemente e invano contro l’oblio e l’indifferenza mondiali. Infatti, la dimenticanza e l’oblio non riguardano soltanto il poeta in quanto individuo, ma soprattutto il poeta in quanto parte di una “questione” collettiva.

Nonostante la prospettiva abbastanza diversa da cui parte Darwish rispetto alle precedenti raccolte, non mancano i rimandi ai grandi temi della poesia palestinese da sempre presenti nella sua poetica. Primo fra tutti è quello della memoria che diventa un vero esercizio di resistenza e anche l’unica arma per chi è stato privato o continua a vedere minacciata, rischiando di perderla, la propria esistenza fisica, la propria identità, la propria storia. A proteggere il poeta dall’oblio sarà un altro simbolo importante della Palestina, l’albero di ulivo, in questo caso due ulivi secolari di nord-est in cui Darwish trova i semi del suo canto. Oltre a questi non mancano i riferimenti agli uccelli, simbolo di un anelito alla libertà e del viaggio: “il mio corpo è una piuma e uccello è la vastità”; e a quei cavalli “caduti dalla poesia” e “periti per le distanze”.

In questa raccolta il nome “Palestina” ricorre soltanto una volta in maniera esplicita. Mahmud Darwish la nomina nella struggente Come un misterioso accadimento, in cui il poeta trasforma la causa palestinese da esclusiva pertinenza del mondo arabo in una “questione” universale. Lo fa coinvolgendo altre voci importanti, quelle di Pablo Neruda e di Ghiannis Ritsos, di cui rievoca il grido. Cosi, l’eco della questione palestinese approda sulle sponde della Grecia, rivendicando la propria centralità mediterranea, e si allunga fino alle coste del Pacifico.

Tuttavia, la Palestina intesa come “terra” e luogo geografico tangibile rimane il cuore del “Mediterraneo” arabo. È dalla Palestina che Darwish guarda alle città arabe rievocate qui: Tunisi, Beirut, Baghdad, Damasco, Il Cairo, città a cui il poeta è arrivato “come gabbiano e ho montato / la mia nuova tenda”. È dalla sua Palestina che Darwish rende omaggio ai grandi poeti e autori arabi del passato e di tempi più recenti, dal già citato Abū Tammām e al-Ma‘arrī, fino a al-Sayyāb, Amal Dunqul, Salīm Barakāt, che fanno parte di un patrimonio universale che comincia da Omero e arriva fino a García Lorca.

Ripercorrendo questi versi dall’inizio alla fine, oppure soprattutto in ordine sparso come spesso amo fare, si ha, però, l’impressione che Darwish ceda a quello che un altro grande poeta arabo, il siriano Nuri al-Jarrah, ha recentemente definito come il “necessario fallimento” a cui deve arrendersi ogni autore di versi. Quel fallimento che fa deviare il poeta dal cammino iniziale per portarlo su una strada che al principio non pensava di percorrere e che si rivela, invece, quella inevitabile.

L’impressione preliminare di commiato e resa a una inesorabile notte diventa improvvisamente un luminoso scenario aperto sul futuro. Il poeta di al-Birwa sembra, in fondo, indicare ai suoi lettori un percorso di consapevolezza da cui non si può non uscire vittoriosi. Infatti, quando “la memoria si dirama” e ci sentiamo costretti a dimenticare facendo “le prove della nostra ordinaria morte”, Darwish ci invita, al contrario, a provare “la vita ora affinché la vita ti alleni / a vivere […] mettendo giù dalle spalle… la tua tomba”.

Ci spinge a riempirci del nostro presente, suggerendo che “non tutto l’amore è morte / né la terra esilio cronico”. Perché, anche contro la nostra volontà, verrà un altro giorno, un giorno dalle sembianze e da una grazia tutte femminili, un giorno in cui nessuno sentirà pulsioni di morte o di migrazione, un giorno “trasparente, compiuto, / diamantino, di visita nuziale, soleggiato, / fluido, allegro”.

Monica Ruocco

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