poesia 4
  • Pagine: 128
  • Prezzo: € 13,00
  • ISBN: 9788883062971
  • Data Uscita: 26/11/2020

Nikos Kazantzakis: Odissea
Federico Garcia Lorca
Thomas Berhard
Aldo Palazzeschi
Hai Zi
Gabriele Galloni

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Sommario

Nikos Kazantzakis ODISSEA, un inno epico-lirico all’Uomo. Di Gilda Tentorio

Federico García Lorca Poeta en Nueva York ottant’anni dopo. A cura di Gabriele Morelli

Thomas Bernhard Sotto il ferro della luna. A cura di Samir Thabet

Silvio Ramat 1900-1914. La giovinezza della poesia in Italia: Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Gabriele Galloni Il dopo morte reso assoluto. Di Alessandro Moscè

Hai Zi Un uomo felice. Di Angela Urbano

Stephen Sexton Se tutto il mondo e l’amore fossero giovani. A cura di Antiniska Pozzi

Federico Italiano Il muscolo della fuga

L’arcimondo di Giovanni d’Altavilla. Di Paolo Garbini

Estratto

L’Odissea di Nikos Kazantzakis: un inno epico-lirico all’Uomo

Quando amiamo uno scrittore, spesso siamo presi dal desiderio di crearci un’oasi personale di vicinanza. C’è chi ama scovare le sue tracce negli oggetti quotidiani: la sedia, il calamaio, la biblioteca. Altri preferiscono visitare i luoghi che hanno germinato i capolavori e fremono di commozione nel ritrovare lo scorcio del paesaggio, la visuale di quella finestra… Ma quando ci si misura con dei Giganti, questi umili tentativi di familiarità non fanno che acuire la nostra piccolezza. Con il cretese Nikos Kazantzakis (1883-1957) si sperimenta un senso di incommensurabilità. Fu uno scrittore dal profilo dimesso, asceta e frugale, tuttavia ciò che lo consacra nell’empireo dei Grandi è una vena eclettica capace di toccare tutti i generi letterari, l’energia incessante di una creatività inquieta, la profondità meditativa che divora tutti gli orizzonti per raggiungere le vette ibride della sintesi. L’Odissea rappresenta il suo opus magnum. Quando, nel 1925, comincia a cimentarsi con il suo Ulisse ha quarantadue anni e alle spalle importanti prove di scrittura, viaggi, disillusioni. Con grande rigore e disciplina, scrive e riscrive sette stesure del poema per tredici anni, riversandovi esperienze personali e intellettuali. Uno sforzo poetico immane che dà le vertigini (42.500 versi nella penultima stesura, 33.333 nell'edizione definitiva del 1938). E intanto la sua vita prosegue frenetica tra viaggi, traduzioni, studio intenso e la scrittura dell’opera filosofica Ascetica (1927)1, su cui riposa anche l’armatura concettuale dell’Odissea.

Che cos’è allora questo poema fluviale? L’intento è onnicomprensivo, cioè costruire la sintesi di tremila anni di storia intellettuale, e infatti archetipi della cultura occidentale si intrecciano con princìpi della filosofia orientale, l’esplorazione delle radici ancestrali si sposa al sogno dell’umanità futura. Un’opera che traborda ogni definizione stabile di genere: per esempio dell’epos si conservano rimandi al modello, agoni ginnici, particolarissime rielaborazioni della catabasi agli Inferi, ma non si troveranno grandiose battaglie, perché al clangore delle armi Kazantzakis preferisce l’astuzia pianificatrice, l’angoscia dell’attesa, la meditazione sulla vanità della guerra. Nel poema si sente forte la vena affabulatoria e narrativa, a tratti la scrittura si fa teatrale, senza disdegnare spunti comici, oppure si fa scrigno di canti e leggende popolari, per dilatarsi in riflessioni filosofiche, visioni allegoriche e oniriche. La nota dominante è però il lirismo, che regala versi di straordinaria bellezza e potenza evocatrice.

Nella sua splendida autobiografia e testamento spirituale Rapporto al Greco2, lo stesso Kazantzakis rievoca i primi mesi di ispirazione, quando l’Odissea cominciò a germinare in lui. Nel 1925 si trova a Creta, ritirato in solitudine nella sua casetta in riva al mare, non lontano dall’antica Cnosso. Riflette inquieto sulle nubi nere che si profilano all’orizzonte (l’ascesa dei totalitarismi) e sulla scrittura come dovere dell’intellettuale. Cerca la luce di una risposta, per offrire la redenzione a un mondo che si va dissolvendo e mostrare all’“attuale pitecantropo” le potenzialità armoniose dell’essere umano.

L’impresa è ardua, una lotta corpo a corpo con le parole, “puledre selvagge” e indomite. Gradatamente comincia a stagliarsi la figura gigantesca dell’antenato, Ulisse astuto e insaziabile. Ma la materia creativa guizza e scivola mutevole: “Ti guardo da ogni parte e mi sforzo di imprigionarti nella parola, di fermare il tuo volto, ma tu frantumi la parola, che non ti contiene, scivoli via”3. In questo sforzo di “intrappolare” Ulisse, forgerà più di cento epiteti: Mente di Volpe, Setteanime, Seduttore, Ladro di anime, Distruttore di rocche, Giramondo…

Si tratta insomma di una battaglia per dire l’indicibile: Kazantzakis spoglia di ogni astrazione i concetti e raggiunge un’essenzialità visuale, grazie a metafore, similitudini, allegorie, personificazioni. E riproduce l'esametro omerico scegliendo il ritmo di un verso anomalo per la tradizione greca, il lungo decaeptasillabo che, come dice lui stesso, ha il respiro delle onde del mare cretese.

Kazantzakis fu un grande plasmatore di parole e un flâneur nel linguaggio. Non è difficile immaginarlo sotto un platano, intento a conversare con vecchi analfabeti depositari di una saggezza antica, o con pastori, contadini e lupi di mare, padroni delle parole precise e colorite che servono a definire il mondo. Lo scrittore appuntava febbrile e poi riversava nel suo poema, che è diventato un thesaurus linguistico, salvando dall’estinzione migliaia di parole. Croce e delizia per il traduttore, che deve immergersi nella lingua di Creta, ma anche nei dialetti dell’Arcadia e isolani (Leucade, Cicladi, Dodecaneso), oltre che nei lessici di botanica, fauna marina, vita rurale, nautica... Tradurre diventa un’avventura di scavo verticale in una lingua che è stratificata e metamorfica, perché il suo creatore geniale plasma neologismi di rara bellezza e densità espressiva. Una missione quasi impossibile, che Nicola Crocetti ha affrontato con perizia, eleganza e dedizione, per regalare finalmente questo capolavoro anche al pubblico italiano.

Il poema si riallaccia all’Odissea omerica, quando (canto XXII) l’eroe dopo la strage dei Proci ha ristabilito l’ordine nel regno di Itaca. L’Ulisse di Kazantzakis è deluso e inquieto: l’isola è troppo piccola per contenerlo, la moglie una donna scialba e impaurita, il figlio un giovane troppo mite. Decide allora di armare un equipaggio, una ciurmaglia male in arnese, e parte di nuovo. Si attua quindi un cambio di direzionalità: se l’epica antica è centripeta e imperniata sulla rotta del nostos, questa Odissea moderna è totalmente centrifuga, un grandioso vagabondaggio in uno spazio che, prima di essere geografico, è metaforico e gravido di archetipi.

La prima tappa è Sparta, dove Ulisse rapisce nuovamente Elena, perché la Bellezza dovrà essere compagna del grande Ultimo Viaggio. Poi la rotta volge verso Sud e i confini spaziali diventano profondità temporali. Infatti Ulisse approda a Creta, la Grande Madre minoica, un baricentro imprescindibile del poema. Ancora oggi gli studiosi si interrogano su una frase misteriosa di Kazantzakis: «La chiave per entrare nella mia Odissea è Creta». Occorre ricordare che antica è la fama dei Cretesi, abili affabulatori capaci di incantare il pubblico con le loro storie. Quindi per il cretese Kazantzakis la sua isola è il vero inizio del Racconto e, al crocevia fra Grecia, Africa e Oriente, è terra privilegiata dove è possibile auscultare il palpito delle origini, il fiato del primordiale, il sorriso consapevole sopra l’abisso, il ciclo inesauribile della lotta per trasformare la materia in spirito.

Da Creta Ulisse fa vela verso l’Egitto dei faraoni, e poi si spinge ancora oltre, attraversando il deserto alla ricerca delle sorgenti del Nilo, nel cuore della misteriosa Africa Nera. Rovescia tiranni, distrugge palazzi e vecchi dèi, partecipa a riti primordiali, aiuta i ribelli a liberarsi dalla schiavitù, costruisce una città ideale, è tenero e crudele, sensuale e asceta, fragile uomo e novello demiurgo. Grida, canta, ride, danza, fa incontri straordinari (Don Chisciotte, Cristo, Buddha) e, finalmente libero, si dirige al Polo Sud per abbracciare la Morte fra i ghiacci.

Che cosa siamo? Come conciliare corpo e anima? Che cos’è Dio e che cosa la libertà?, sono alcune delle domande a cui cerca di rispondere Kazantzakis. La sua Odissea infatti è un’opera di idee: il poema omerico è un pre-testo che viene evocato e riscritto, ma lo slancio insaziabile di Ulisse, simile per certi versi a quello dantesco, delinea una visione del mondo più ampia, che poggia su Kierkegaard, Nietzsche, Bergson, Marx, Buddhismo, vitalismo, esistenzialismo.

L’Odissea è dunque una gelida opera intellettuale? Assolutamente no. La maestria di questo incantatore di parole sta proprio nell’incastonare il suo grandioso progetto concettuale in versi “immaginifici” che rapiscono e sorprendono il lettore: il quotidiano convive accanto alla tragedia e all’ideale, il micro accanto al macrocosmo, mentre il crudo realismo svapora in visioni e sogni. Il risultato è un poema di precisione “spettacolare”: il lettore cioè è chiamato a farsi “spettatore” di un mondo che si dispiega sgargiante davanti ai suoi occhi, grazie alla straordinaria capacità di osservazione poetica dell’Autore. Riesci a vedere il corpo sinuoso del leopardo striato dai raggi di sole che filtrano dalle fronde ma anche le iridescenze del moscondoro, le querce secolari e i freschi

semi della melagrana, la potenza dei fenomeni naturali (tempeste, terremoti, eruzioni), e la luce che si fa miele, lo snodarsi dei pensieri e le metamorfosi di Dio. Un’immagine conduce all’altra, secondo una portentosa necessità artistica, a delineare un universo dominato da una vitalità cangiante in perpetuo divenire. Così il Sole (a cui sono dedicate le invocazioni del Prologo e dell’Epilogo) ha infinite varianti: per esempio è toro che monta la giumenta-terra, goccia di fico mielato, testa mozza che rotola sulle sabbie d’Egitto; la notte ha capelli azzurri e occhi stellati, la luna è una fibbia di madreperla o un sudario d’argento, gli astri pendono come collana di perle o gocce di rugiada sul notturno drappo di velluto. Il Sonno è un mare di alghe dove affonda il corpo stanco, la memoria è una botola blu, i ricordi fiori di mandorlo o frutti. Spirito e materia si fondono, per cui si beve il vino e la mente si arrossa, una goccia di miele trasforma il cuore in arnia, così come è sufficiente pensare il mare e ci si ritrova cosparsi di salsedine. Dio non è un’entità immobile che troneggia sulle nuvole, ma guerriero, ruggito, forza primordiale, vertigine orgiastica; la libertà è fiamma e brezza leggera, la Morte è gelido polpo che risale le membra o rosa in boccio, oppure è Caronte, che con un fiore all’orecchio guida verso l’ultimo approdo.

Ulisse, prototipo della forza del pensiero e al contempo della precarietà umana, non muore in solitudine. Convoca a sé i compagni, le donne che ha amato e quanti ha incrociato nella vita: ed ecco che una carovana di ombre, pacificate o colme di rimpianti, corre da lui sui ghiacci australi, e al suo segnale, una grande risata, salpano insieme per il Ritorno, cioè il dissolvimento. Finalmente libero dalla servitù a speranza e paura, Ulisse si è chinato sull’abisso senza tremare. Un ciclo si è compiuto, la rotta è stata indicata. E ora Ulisse-Kazantzakis attende che anche il lettore italiano compia il suo viaggio, per guidarlo oltre.

Gilda Tentorio

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