rivista poesia 6
  • Pagine: 128
  • Prezzo: € 13,00
  • ISBN: 9788883063015
  • Data Uscita: 08/04/2021

Derek Mahon: le ultime poesie
Louise Glück
Yves Bonnefoy
Vittorio Sereni
Roberto Rossi Precerutti
Andrea Bajani

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Sommario

Derek Mahon, Sciacquando. A cura di Alessandro Gentili

Louise Glück, Un inedito. A cura di Peg Boyers e Anna De Biasio

Yves Bonnefoy, La terra. A cura di Fabio Scotto

Silvio Ramat, 1900-1914. La giovinezza della poesia in Italia: Umberto Saba (1883-1957)

 “Questo trepido vivere nei morti”. Rileggendo Sereni. A cura di Daniele Piccini

Ida Vitale, Pellegrino in ascolto. A cura di Alberto Pellegatta e Pietro Taravacci

Milo De Angelis, I poeti di trent’anni. Eleonora Rimolo. Prossimo e remoto

Gli inni pseudo-omerici a Dioniso. A cura di Daniele Ventre

Roberto Rossi Precerutti. Genio dell’infanzia cattolica

Andrea Bajani, “Ci si sveglia e non c’è più l’infanzia”. A cura di Daniele Piccini

Robert Desnos, No, l’amore non è morto. A cura di Pasquale Di Palmo

Estratto

“Ci si sveglia e non c’è più l’infanzia”. Andrea Bajani
di Daniele Piccini

Professionista della parola, autore di romanzi e reportage, Andrea Bajani (1975) sembra guardare alla poesia come a un resto o a un residuo di senso che permane ai bordi dello sviluppo del discorso, che si ritaglia uno spazio. C’è intanto una solida coscienza artigianale nel fare poesia di questo autore. Nel primo libro, Promemoria (Einaudi, 2016) Bajani giocava a distanza, imperfettamente con l’idea di una forma chiusa. I testi erano lì delle annotazioni (appunto dei promemoria) strappati al quotidiano e lasciati in uno spazio bianco e vuoto, a rivelare bagliori allucinatori, sussulti, inquietudini. Il gioco con la forma chiusa (evocata e insieme disattesa) consisteva nella serialità del tipo di scrittura, per lo più con verbi all’infinito, e nella brevità delle composizioni. Si prenda un esempio, il componimento numero 6 della serie: “Imparare a parlare dai bambini. / Inventare il plurale delle cose. / Un bau due tre quattro bai. / Dimenticare le coniugazioni / far cadere in terra il tempo. / Non camminarci sopra scalzi”. Come accade in questo caso, spesso i promemoria riguardano lo strumento verbale, la parola e l’atto stesso di servirsene. Sono quindi come delle prescrizioni per il buon uso della parola (poetica), per la sua messa a frutto. Ma la parola è, in questi trucioli o resti di lavorazione, uno spazio onninclusivo, in cui tutto può trovare eco e risonanza, in cui tutto può entrare. La parola e la farmacopea o istruzione per l’uso che la riguarda è dunque anche un osservatorio sui fatti minimi e generali dell’esistenza, guardati con sospensione e come al rallentatore, quasi in una gabbia dove accadono fatti tanto costanti quanto imprecisabili.
Lo stesso atteggiamento si ritrova nel secondo libro di Bajani, Dimora naturale (Einaudi, 2020). L’aggettivo del titolo designa intanto il tipo di osservatorio e l’oggetto dello sguardo: si tratta del teatro dell’essere, della vita e, naturalmente, della morte, in quanto inclusa nella naturalità dell’esistere. Di nuovo fatti minimi e universali, quasi inerenti a un discorso naturalistico (appunto), si dispongono nella struttura della forma poetica. Essa, in questa seconda raccolta, si avvicina ancora di più al limite della vera e propria forma chiusa, ma anche in questo caso in modo sghembo, libero, tangenziale. Sono tutte ottave, cioè strofe di otto versi, senza strutture rimiche (salvo eccezioni) e con versi di varia misura, arieggianti l’endecasillabo, ma senza renderlo misura puntuale di riferimento. Non c’è dunque la ricerca di una sonorità o di una euritmia nella scelta dello spazio chiuso, rinserrato, codificato dalla metrica, quanto piuttosto la sfida con una dimensione concentrata e raddensata. I testi dunque non ‘suonano’, ma piuttosto cercano cortocircuiti e impreviste agnizioni, dentro una materia verbale spoglia e minimale. Ancora annotazioni, dunque, in qualche modo trucioli, frammenti, spore, che tentano di mettere in relazione oggetti e dimensioni lontani tra di loro. La cerebralità (caratteristica che può forse far ricordare certo Magrelli, uno degli autori che si possono evocare a proposito di Bajani) ha anche in questo caso una sua importanza: “Come mai di colpo poi spariscono / senza dare spiegazioni, come mai / nessuno vuole più sentire il verso / del cavallo, nessuno dice più nitrito, / raglio, nessuno vuole più un barrito. / Sono grandi glaciazioni, gli animali / se ne vanno dalle case nottetempo. / Ci si sveglia e non c’è più l’infanzia” (componimento numero 2 della serie). L’autore inanella anche qui una catena di organismi testuali minimi, di cellule, di forme-base, spesso costeggiando il tema della mutazione e trasformazione, delle metamorfosi stagionali, dei ritmi della natura. Il suo punto di osservazione è piuttosto neutrale, se proprio non vogliamo definirlo freddo, algido: guarda come attraverso un velo di distacco, come per un pertugio o una cortina ciò che accade nel mondo.
Ed è la forma poetica il cannocchiale prescelto, la lente che ingrandisce e tramuta in modo inatteso gli oggetti e le figure in qualcosa di misterioso e sorprendente (a proposito, si noterà che c’è a tratti un gusto per la costruzione ad effetto del discorso). Ciò significa che la forma poetica non è pacificata né fluente, ma è piuttosto come la mineralizzazione di un sentimento di amarezza o disillusione, che non toglie però del tutto la possibilità di osservare uno spettacolo, quello del mondo naturale e umano, con attrattive, incognite e sorprese. Il poeta sembra trovarsi a suo agio in una zona interstiziale, di sospensione e messa in discussione delle cose, di inquietante paradosso. Guarda e riguarda, osserva, studia, quasi da etologo, i fenomeni delle specie animali (e dell’uomo), senza alcuna superiore fiducia o certezza in alcunché. E tuttavia il gioco della parola lo obbliga a una sorta di ginnastica mentale, a un esercizio quasi infantile, che fa sì che il mondo non sia mai del tutto prevedibile e detto, ma sempre da ricodificare. La poesia, come suggerisce il componimento finale (“[…] / Accadeogni imprevedibile numero di anni,/ la poesia ha traiettorie solo a posteriori,/ è un asteroide disperso, non monitorato./ Non esplode, non fa danni, lascia polvere/ di versi sui balconi e torna nel buio siderale”) viene da una distanza, segue tracciati imperscrutabili, si annida fra i tragitti incalcolabili dei pianeti, come un residuo: forse come un’indistruttibile scoria mentale dell’universo pensato dall’uomo.

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