• Pagine: 128
  • Prezzo: € 14,00
  • ISBN: 9788883064142
  • Data Uscita: 09/04/2024

Vittorio Sereni: Tra gioia e inflessibile memoria
Omero
Virgilo
Martín López-Vega
David Riondino
Anna Maria Carpi

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Sommario

Vittorio Sereni: Tra gioia e inflessibile memoria. A cura di Daniele Piccini;

Silvio Ramat - 1900-1914. La giovinezza della poesia in Italia: Carlo Chiaves (1882-1919);

Daniele Ventre: L’Odissea ricreata. A cura di Maria Clelia Cardona;

Martín López-Vega - Poesia del sentimento e della riflessione. A cura di Gabriele Morelli

Opificio delle voci nuove, 1 - Poesie di Rebecca Garbin, Mattia Tarantino e Imperatrice Bruno. A cura di Giulia Martin;

David Riondino: Ospedale in terza rima;

Adam Asnyk: “Quante nascite, quante morti attraversiamo”. A cura di Valeria Rossella;

Il commento - Virgilio: Il vecchio di Còrico (Georgiche IV, vv. 125-146). A cura di Giancarlo Pontiggia;

Anna Maria Carpi: In tanti e in tanti;

Idee – Stefano Carrai. Commentare la poesia moderna e contemporanea;

Claudio Damiani - Una luce negli occhi;

Eugenio Montale - Le lettere inedite di Montale a Carlo Bo. A cura di Stefano Verdino.

Estratto

Vittorio Sereni, Tra gioia e inflessibile memoria, a cura di Daniele Piccini

Le occasioni editoriali per rileggere Sereni non mancano. Nel quarantennale della sua scomparsa (2023), Mondadori ha ripubblicato Tutte le poesie, curate nel 1986 dalla figlia del poeta Maria Teresa, con una lucida prefazione di Dante Isella. A fine 2023 è apparsa poi l’edizione commentata degli Strumenti umani, a cura di Michel Cattaneo, nella collana della Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda Editore (il commento di Cattaneo può appoggiarsi a una tradizione precedente, dalle annotazioni di Lenzini a quelle di Isella e Martignoni, per non dire dei materiali dell’edizione critica di Isella, uscita nei “Meridiani” nel 1995). Infine a inizio 2024 è stato pubblicato da Carocci il commento a un singolo testo di Sereni, Ancora sulla strada di Zenna (ugualmente dagli Strumenti umani), a cura di Christian Genetelli. La canonizzazione dell’autore di Luino (1913-1983) passa dunque non solo dalla ristampa della sua opera (già disponibile nel volume degli “Oscar” Mondadori curato da Giulia Raboni, comprensivo di una sezione di prose), ma anche e soprattutto da un lavoro esegetico che si confronta con i punti più sfuggenti e ambigui dei suoi testi o, sarebbe meglio dire, più ricchi di significato, di sfumature, di complessità.

Credo infatti che a imporsi in Sereni sia proprio la capacità di convogliare nei testi più alti e riusciti una pluralità, persino contraddittoria, di segnali, di voci, di spunti. Come se il testo significasse sempre qualcosa, ma alludesse in perpetuo anche a qualcos’altro, a un’inquietudine, a una possibilità, a un germe che appena vi alligna. Insomma la poesia di Sereni non è quasi mai univoca, ma piuttosto dialettica, in tensione. In questo senso la lezione che più in profondità sembra essere stata interiorizzata dal poeta è quella del maestro della modernità italiana, Leopardi, soprattutto il Leopardi dei canti pisano-recanatesi: testi dove tutto è o dovrebbe essere chiaro alla coscienza del poeta-pensatore e che pure pullulano e brulicano di nuove interrogazioni, di aperture, di squarci, di rammemorazioni acerbe che riaprono prospettive date per superate. A Silvia non è forse il canto della fine della speranza? Sì, certo, lo è indubitabilmente; ma nel contempo è anche il canto che rende presente, nell’ottica subito esibita della memoria (Silvia, rimembri ancora), l’imporsi di quella pur fragile e inerme speranza, che presto il mondo spegnerà. Insomma, è un nodo drammatico a fondare il testo e il suo senso.

Questo, mi pare, avviene spesso anche in Sereni. Per tale ragione il commento di Cattaneo, pregevole per più aspetti, innanzi tutto documentari e intertestuali (con Montale come principale oggetto della memoria ritmica e lessicale sereniana), si vorrebbe talvolta meno assertivo e più disponibile a cogliere non tanto l’ideologia di Sereni (che è assente o in perpetuo movimento), quanto la sua impossibilità di consistere in formule, proprio come Leopardi. Prendo a mo’ di esempio un testo su cui mi è capitato di riflettere in passato, Sopra un’immagine sepolcrale, dagli Strumenti umani (la sezione è, precisamente, Apparizioni o incontri), che proprio a Leopardi deve il suo spunto, fin dal titolo.

Il poeta attraversa il cimitero di Luino e il suo sguardo è attirato dalla tomba di un suo coetaneo, morto giovane, che lo fissa dalla foto della lapide (il personaggio è probabilmente da identificare, come nota Cattaneo, con Mosé Bignami, 1914-1939). La seconda strofa recita: “E qui egli sta tra i pargoli innocenti / stupefatto nel marmo / come se un Tu dovesse veramente / ritornare / a liberare i vivi e i morti. / E quante lagrime e seme vanamente sparso”. L’immagine finale, che attraverso Leopardi risale indietro fino a Petrarca, è senza dubbio nullificante e disperata. Non c’è dubbio che il testo si concluda su un’espressione tale da rimandare alla vanitas vanitatum del Qohelet. Per altro, come l’edizione critica documenta, il verso finale è un verso isolato, concluso in sé, che Sereni aveva dapprima pensato di utilizzare per Il muro (altra celebre poesia mortuaria degli Strumenti umani), dislocandolo poi invece, in corso d’opera, alla fine di Sopra un’immagine sepolcrale. La chiusa è quindi chiaramente negativa. Ma i versi che precedono suonano, più che coerenti con la chiusa e intonati con essa, ambigui o, meglio, polisemici. Quel “come se un Tu dovesse veramente / ritornare / a liberare i vivi e i morti” (con evidente richiamo della preghiera del Credo) davvero sarà, come scrive Cattaneo, una “riflessione sull’insensatezza della morte in un’ottica atea”? E davvero si troverà qui “una puntuale sconfessione della formula del cosiddetto Credo”? Si tratta senz’altro di uno dei significati possibili da attribuire al passo: il come se inteso nel senso di una fede infondata, mal riposta, irrealizzabile. Ma è altrettanto possibile, guardando alla logica del testo (al di là quindi delle opinioni di Sereni, che mai ebbe ad aderire ad alcuna fede positiva), cogliere nel come se un’apertura, uno squarcio verso una possibilità altra, per quanto remota, verso un’ipotesi, un’attesa attribuibile forse almeno ai morti. Un’altra figlia di Sereni, Silvia, ricordava che il modo del poeta di rispondere a chi gli domandava (compresa la moglie) se una poesia volesse proprio significare quella determinata cosa era di dire: anche. La poesia significa anche questo (la disperazione della morte), lasciando qualche spiraglio aperto ad altra prospettiva, magari solo aleggiante, ipotetica, e tale da rendere il congegno del componimento più altamente denso ed enigmatico.

È del resto una dinamica simile, a sequenze invertite, quella che si ritrova nel testo conclusivo degli Strumenti umani, La spiaggia. Lì l’opposizione, il dramma è tra la voce saputa che dice che gli andati non torneranno più e quella profetica del mare, su cui il testo è sigillato: “Non / dubitare – m’investe della sua forza il mare – / parleranno”. Si tratta, come il corpo del componimento si incarica di chiarire, di “toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce”. Siamo con ciò nel cuore della tremolante, fragile poetica vitalistica di Sereni, che più di una volta mette assieme nei suoi versi la cenere e il fulgore dell’amata estate, come un nesso inscindibile (al pari degli occhi di Silvia “ridenti e fuggitivi”). C’è una poetica della gioia in Sereni (si pensi soprattutto a Appuntamento a ora insolita negli Strumenti umani), che si contrappone al male della Storia, di cui il poeta fa “inflessibile memoria”, come insegna Dall’Olanda, ancora negli Strumenti. Escluso dalla possibilità di partecipare alla Resistenza, in quanto prigioniero degli alleati fra l’estate del 1943 e il 1945 nell’Africa del Nord (si ricordi la raccolta Diario d’Algeria, uscita in prima edizione nel 1947), Sereni nutre un sentimento di inadempienza che lo porta a custodire il ricordo delle efferatezze naziste nella Seconda guerra mondiale con un atteggiamento vigile e consapevole. Quella minaccia, insegna il poeta, può di continuo riaffiorare dalla stessa trafila dei gesti quotidiani: lo denuncia una poesia di potente capacità attualizzante della Shoah come Sarà la noia, in Stella variabile (1981, dove si legga pure Le donne). Il massacro degli ebrei non può considerarsi estinto, quel debito non può essere pagato. Il tono di Sereni in questi casi può farsi sferzante e grottesco, come accade, negli Strumenti umani, in un testo quale Nel vero anno zero.

Un poeta, insegna la parabola sereniana, può crescere su sé stesso: ci sono senz’altro due stagioni in Sereni, la prima che comprende Frontiera (1941) e Diario d’Algeria, la seconda che va dagli Strumenti umani a Stella variabile, sebbene nella riorganizzazione del suo lavoro maturata proprio al tempo degli Strumenti, Sereni abbia rivisto e ritoccato le prime due raccolte, non senza aggiunte e sovrapposizioni (e il canone editoriale dell’opera complessiva di Sereni a partire dalle Poesie del 1986 è basato proprio sulla revisione maturata negli anni Sessanta). Si può dire che alcune costanti (lo suggeriva Isella) caratterizzino l’intero percorso, insieme a delle fratture o se si preferisce a delle scoperte e a delle acquisizioni venute dopo. Poeta più puro e selettivo prima, il luinese si fa impuro e complesso poi, senza tuttavia trascurare una lezione petrarchesca di suono e memorabilità del verso, che vale anche quando esso va in direzione del parlato e della prosa. Europeo e aperto al senso della frontiera in tutti i suoi significati (geografici, ma anche metafisici: si pensi al tema del dialogo coi trapassati) Sereni lo è sempre stato: dagli Strumenti umani diviene anche un poeta teso verso una sorta di musica atonale (lo notava Montale), verso una poesia contaminata con la prosa e l’oralità, eppure capace ancora di guizzi verticali.

Daniele Piccini

 

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